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20 maggio 1996-2021: Marcia del Silenzio. L’Uruguay ricorda i detenuti scomparsi della dittatura militare

20 maggio 1996-2021: Marcia del Silenzio. L’Uruguay ricorda i detenuti scomparsi della dittatura militare

 

Ogni 20 maggio, dal 1996, con la “Marcha del Silencio” l’Uruguay ricorda i “detenidos desaparecidos”: 197 persone, oppositori politici ma anche semplici cittadini, sequestrate dai militari e scomparse nelle caserme dell’Esercito, e i cui corpi non sono mai più stati ritrovati. Ricorda la tragedia degli anni di feroce oppressione militare, iniziata alla fine degli anni ‘60 per reprimere gli scioperi e le proteste per la devastante crisi economica causata dalle politiche neoliberiste dei governi. Una tragedia culminata con il colpo di Stato civico-militare, che tra il 1973 e il 1985 ha soppresso le libertà civili e democratiche, e gettato il Paese in preda al “Terrorismo de Estado” (Terrorismo di Stato). Arresti arbitrari, causati da un sospetto, da una delazione, da una azione apparentemente innocente, come leggere un giornale; assassinii, sparizioni nel nulla. Questo l’incubo che ha vissuto il Paese, e segnato profondamente la vita e la memoria delle persone.

Di seguito la riflessione che ha scritto per noi Celia Pierina, una giovane donna nata dopo la fine della dittatura, ma che porta ancora ben vivo su di sé il ricordo e il dolore casato da quegli avvenimenti vissuti dai suoi familiari; e un articolo di Guillermo Garat (giornalista uruguayo) su Luisa Cuesta, donna e madre alla ricerca instancabile di giustizia per il proprio figlio e per tutte le vittime della dittatura.

Più di un anno fa mi trovavo a Stirling, in Scozia, con tutta la forza vitale di chi sta per iniziare qualcosa di nuovo. Camminavo per le strade osservando come le persone si muovevano naturalmente sotto la pioggia, senza preoccuparsi di prendere un possibile raffreddore o mal di gola. Mi godevo un liquore nel bar con la musica dal vivo. Ridevo e mi abbracciavo con le persone attorno a me. Passavo tempo tra gli scaffali dei supermercati, pieni zeppi di prodotti per prendere un po’ di calore. E così osservavo anche altro: Il verde degli alberi, la pulizia della città, il sorriso dei ragazzi, gli zaini scolastici… Insomma la vita che succedeva davanti ai i miei occhi stranieri… e all’improvviso, cominciava l’emergenza, che ancora oggi ci condiziona. Io ero lontana da casa, con i progetti saltati in aria e una paura che andava oltre ciò che stava succedendo. Una paura che non veniva da me ma che scorreva nel mio sangue.

Sono argentina, figlia di uruguaiani e ora vivo in Uruguay. Quart’ultima tra 12 fratelli, mia mamma aveva circa sei anni quando comincio’ la dittatura. La sua sorella più grande, si ricorda che quando scoppio’ la dittatura, le piazze erano piene di militari armati e che a casa dovettero bruciare le tessere di voto per non essere sospettati di essere anti-militari. Tanti i vicini portati via, legati ai piedi e alle mani perché considerati “Tupamaro” “Negro comunista”, ecc e tanti scomparsi cosi’…

Sebbene nessuno della mia famiglia fu vittima diretta delle torture, anche loro sentirono la potenza della privazione della libertà e il trascorrere di quel periodo come in una – attesa non attesa – di essere portati via per chissà quali “motivi”.

Quella sensazione di “presa”, come quando gli animali cacciano qualche altro essere da mangiare (io sarei la vittima), mi ha bloccato in tante decisioni. Ricordo che alla fine della quinta superiore avevo l’intenzione di fare la tesina sul vincolo tra la seconda guerra mondiale e la dittatura in Sudamerica ma provai brividi dietro la nuca e un nodo alla gola, quindi desistetti.

Paura? Certamente.

Di cosa?

Di non avere la libertà di pensare, di esprimere le mie convinzioni, di sostenere l’etichetta di “comunista” e tanto altro che mia mamma mi ha trasmesso inconsciamente.

Quando l’anno scorso e’ stata dichiarata la pandemia, ho provato la sensazione di essere sotto uno stato militare. Mi sentivo osservata, inseguita ed era come se mi aspettasse che qualche “agente” si fermasse per portarmi via. Mi sentivo completamente condizionata dall’esterno, violentando il mio essere.

Ti sembra pazzo? Assolutamente no, stavo ri-sentendo ciò che mia mamma, le mie zie, i miei nonni, non potettero manifestare. La contrapposizione tra la SICUREZZA e la LIBERTÀ.

Hai idea di quanto valore ha la nostra voce? Sei cosciente di quanto blocco generi il silenziare le ingiustizie, le proprie paure e le emozioni?

E’ passato un anno da quando sono dovuta rientrare in Uruguay dalla Scozia con un volo speciale per rimpatriati. Ero esausta, contratta e ho impiegato un tempo a capire che continuano a succedere i mali di sempre pero’ con maggiore dimensione.

Eh si, perché vi e’ connessione tra il modo in cui accettammo che il “diverso” (ebrei, gays, partiti politici antifascisti, religiosi, atei…) fosse da sterminare con come si istallo’ tra i vicini di mia mamma la convivenza con i militari, con il modo in cui oggi apprendiamo i fatti dell’attualità: la non azione e il silenzio.

Gli eventi successi ci obbligano a cambiare l’ottica della lente con cui osserviamo la storia e il presente. I fatti continuano a succedere, forse cambiando l’anno, i detentori del potere e le vittima, ma accadono e sempre aumentando l’intensità, ora, la domanda da farci e’: cosa ci facciamo con questo? E’ evidente che qualcosa non riusciamo a cogliere se i fatti si ripetono ancora…

Io sento, e mi apro nel condividerlo con te, che e’ fondamentale ascoltare la propria voce, quella del cuore, solo li’ risiede la risposta che cerchiamo. Quando riusciamo a silenziare la mente e i dogma che ci impone, tutto si tinge di accettazione, comprensione, armonia e pace… Il percorso non e’ semplice, ma e’ possibile.

Comincia a sentire il tuo cuore, e cosi’ creerai una nuova realtà, un nuovo senso di giustizia, un nuovo modo di dare voce a chi già, fisicamente, non c’è. Abbi fiducia nella vita.”

Cepigola – Uruguay.

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Silenzio.

Le madri cercano sempre i propri figli, fino a che non li trovano. Ne avete mai visto qualcuna perdere il proprio bambino in una piazza, in una strada, tra la folla? Che disperazione. E quanta solidarietà che suscita un momento come questo. Come non aiutarle? Quante madri ritrovano i propri figli? Quasi tutte.

Ma Luisa Cuesta è stata un’eccezione. Lei non ha mai potuto ritrovare il suo: Nebio, 33 anni, padre, marito, militante politico esiliato nell’Argentina del ‘76, prossima a dare vita ad un’altra dittatura sudamericana.

Oggi è stata cremata in silenzio. Anche se accompagnata. Ci sono stati applausi. Ma il silenzio prevaleva. Anche la morte di Luisa è stata coronata dal silenzio. Come gli ultimi 42 anni della sua vita: silenzio.

Aveva le labbra sottili e gravi, come pure Nebio, suo figlio scomparso. I loro occhi nascondevano qualcosa dentro. Poteva essere una visione, un pensiero intimo. Chi lo sa. Che stupido non averglielo chiesto. Che cos’ha il tuo sguardo, Luisa?

Osservando una foto di Nebio, ricordo che avevano lo stesso sguardo (lo sguardo simile), e (avevano) il viso estremamente somigliante. Nei loro sguardi conviveva l’abbandono lontano di qualcosa di enigmatico. Era come una entità paradossalmente ancora presente,e un’altra assente Forse era un pensiero, una sensazione, una intuizione. I loro volti erano scolpiti dallo stesso scultore, un’opera di oreficeria dello stesso orafo. Lo scalpello dell’espressione li univa come fa la genetica con i corpi legati dal sangue.

Luisa Cuesta aveva anche la fronte come quella di suo figlio: ampia, rivolta all’orizzonte, limpida. “el Petiso” ( il piccoletto) lo chiamavano (il piccoletto). E anche se penso che nessuno osasse chiamare piccoletta a Luisa, (neppure i Presidenti della Repubblica osavano interromperla) tutti sappiamo che lo era. Ora entrambi sono silenzio. Ma un gigantesco silenzio. (ma un grande, profondo silenzio).

Nebio Ariel è stato fatto tacere un 9 di febbraio 1976, quando alle 9 di sera lo sequestrarono in un bar della stazione Belgrano a Buenos Aires.

Al commissariato nessuno sapeva nulla. “deve trattarsi di un gruppo di uruguaiani che se la stavano spassando”, disse un poliziotto ad Alicia Roman, la moglie di Nebio.

Si, se la stava spassando. Si era unito a un gruppo con esponenti di quasi tutti i partiti uruguaiani (compresi associazioni non partitiche) che auspicavano il ritorno alle democrazia in qualunque modo. Gli uruguaiani esiliati in Argentina desideravano ritornare. Nebio scriveva, dietro pseudonimo, per due periodici che arrivavano clandestinamente in Uruguay. In silenzio.

Per alcuni anni ho avuto il privilegio di stare accanto a Luisa, perché dovetti assistere a processi contro dittatori e torturatori. Non le chiesi mai nulla, ma lei neppure mi raccontò molto su Nebio. Lei parlava per tutti i familiari dei 200 sequestrati scomparsi. Non chiedeva per sé stessa o per Nebio. Chiedeva per tutti coloro che non chiedono più, non scrivono più, per coloro che ora non sono altro che un ricordo. Un ricordo che, poco a poco, va svanendo. Silenziosamente. Come passano le generazioni che muoiono.

Tutti i governi democratici hanno taciuto. A volte, le hanno risposto con poche parole e qualche foto, ma in un mare di silenzio.

Ieri Luisa è stata cremata. Nessuno le ha potuto dire cosa fosse successo ai tanti scomparsi. Nessuno ci ha detto perché la barbarie deve restare impunita, né perché lo Stato non aiuta quelle madri, affinché possano ritrovare i loro figli dispersi nel parco del terrore, più di 40 anni fa.

Silenzio. Luisa se n’è andata. Non era da sola, però non c’era suo figlio. In realtà, le mancavano 200 figli.”

Guillermo Garat – giornalista – Uruguay  (Traduzione dall’originale: Marco Dorigo)

 

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Silencio 

Las madres siempre buscan a sus hijos hasta encontrarlos. ¿Acaso nadie ha visto alguna perder a su niño en una plaza, una calle, un tumulto? Qué desesperación. Y cuánta solidaridad que convoca ese momento. ¿Cómo no ayudarles? ¿Cuántas madres encontraron a sus hijos? Casi todas.

Pero Luisa Cuesta fue una de las excepciones. Ella nunca pudo encontrar al suyo: Nebio, 33 años, padre, esposo, militante político exiliado en la Argentina del 76′ a punto de parir otra dictadura latinoamericana.

Hoy la cremaron en silencio. Aunque acompañada. Hubo aplausos. Pero primó el silencio. A la muerte de Luisa también la coronó el silencio. Como los últimos 42 años de su vida: silencio.

Tenía los labios finos y serios como también tenía Nebio, su hijo, el desaparecido. Los ojos de los dos escondían algo en su interior. Podía ser una visión, un pensamiento interno. Quién sabe. Qué estúpido no habérselo preguntado. ¿Qué tiene tu mirada Luisa?

Observando una foto de Nebio recuerdo que miraban parecido y tenían el rostro hermanado. En sus miradas convivía el dejo ausente de algo enigmático. Era como una entidad todavía presente de alguna forma paradójica y otra ausente. Era un pensamiento quizás, una sensación, un parecer. Sus rostros estaban esculpidos por el mismo escultor, su orfebrería era del mismo orfebre. El cincel de la expresión los hermanaba como hace la genética con los cuerpos enlazados por la sangre.

Luisa Cuesta también tenía la frente como la de su hijo: amplia, apuntando al horizonte, limpia. “El Petiso” le decían. Y aunque creo que nadie se animara a decirle petisa a Luisa (ni los presidentes de la República osaban interrumpirla), todos sabemos que lo era. Ahora los dos son silencio. Pero es un silencio grande.

Nebio Ariel fue callado un 9 de febrero de 1976 cuando lo chuparon a las nueve de la noche en un bar de la Estación Belgrano en Buenos Aires.

En la comisaría no sabían nada de nada. “Debe tratarse de un grupo de uruguayos que estaban jodiendo”, le dijo un policía a Alicia Román, la esposa de Nebio.

Sí estaba jodiendo. Se había integrado a un grupo con representantes de casi todos los partidos uruguayos -incluso expresiones políticas no partidarias- que querían la vuelta a la democracia como fuera. Los uruguayos exiliados en Argentina querían volver. Nebio escribía, con seudónimo, en dos periódicos que entraban clandestinos a Uruguay. En silencio.

Durante algunos años tuve el privilegio de estar cerca de Luisa porque me tocó cubrir los juicios a dictadores y torturadores. Nunca le pregunté, pero tampoco nunca me comentó mucho de Nebio. Ella hablaba por todos los familiares de los 200 desaparecidos. No pedía por ella o por Nebio. Pedía por todos quienes ya no piden, ni escriben, por los que son nada más que recuerdo. Un recuerdo que se va, y se va, y se va borrando. En silencio. Como pasan las generaciones que se van muriendo.

Todos los gobiernos democráticos le dieron silencio. Y también, a veces la palabra incuso alguna foto, pero en un mar de silencio.

Ayer cremaron a Luisa. Nadie le pudo decir qué había pasado con tanto desaparecido. Nadie nos ha dicho por qué la barbarie debe quedar impune ni por qué el Estado no ayuda a esas madres para que encuentren a sus hijos perdidos en el parque del terror hace más de cuarenta años.

Silencio. Se ha ido Luisa. Estaba acompañada pero faltaba su hijo. A decir verdad le faltaban unos 200 hijos.

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Da 25 anni l’associazione “Madres y Familiares de Uruguayos Detenidos Desaparecidos” (Madri e familiari dei detenuti uruguaiani scomparsi) chiede che venga fatta luce sulla sorte dei 197 scomparsi di cui non si è più saputo nulla; chiede che vengano perseguiti e assicurati alla Giustizia tutti coloro che si sono resi responsabili di crimini durante il periodo della dittatura.

Molti colpevoli sono tuttora impuniti, complice una legge che per lungo tempo ha impedito che fossero processati per i loro crimini; una legge abolita, ma che ora si vorrebbe ripristinare.

Ricordiamo queste persone scomparse, e insieme a loro tutte le vittime del “Terrorismo de Estado” e della violenza fascista, perché il loro sacrificio non sia stato inutile; perché la giustizia e la democrazia non sono un regalo, sono sempre in pericolo, e vanno conquistate ogni giorno, ogni momento.

Ricordiamo anche quanto sta avvenendo in Colombia e in Palestina in questi giorni, nel silenzio e nella disinformazione istituzionalizzata. Ricordiamo e denunciamo anche questi terrorismi di Stato dei nostri giorni.