L’italianizzazione delle popolazioni “allogene”: le prime leggi razziali dell’Italia fascista
Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, lungo i confini orientali italiani, molti sloveni e croati si trovarono a vivere sotto l’Italia. Fin da subito, furono vittime della violenza squadrista, tanto che la Venezia Giulia, l’Istria e la Dalmazia divennero i territori in cui i fascisti erano più radicati. Ben presto, le cosiddette popolazioni “allogene” vennero discriminate anche sul piano legale.
Nel 1922, venne vietato l’uso del croato e dello sloveno negli uffici pubblici e poco dopo tale divieto venne esteso anche a luoghi pubblici e negozi. Dal 1923, l’italianizzazione della toponomastica dell’Istria e della Dalmazia divenne sistematica e, in meno di un anno, tutti i nomi di località croate e slovene vennero sostituiti dai corrispettivi italiani, spesso creati ad arte.
Nel 1927, si giunse infine all’italianizzazione forzata di tutti i cognomi di origine slava. Sempre nel 1923, con l’entrata in vigore della Riforma Gentile, si iniziò un’opera di rieducazione dei giovani: il croato e lo sloveno vennero proibiti nelle scuole e i maestri locali vennero sostituiti da insegnanti italiani.
Con il Concordato con la Chiesa, il fascismo poté controllare le nomine degli ecclesiastici, che fino a quel momento erano stati una fonte di resistenza passiva all’italianizzazione.
Nel 1927, vennero sciolte tutte le organizzazioni culturali, ricreative ed economiche slovene e croate, fino ad arrivare alla soppressione delle leghe cooperative di Trieste e Gorizia. Questo provvedimento tolse un fondamentale sostegno economico ai contadini slavi e favorì la loro espulsione dai terreni agricoli, subito requisiti dallo Stato e dati a famiglie contadine italiane.
Si trattò di un tentativo di sostituzione etnica, in cui provvedimenti legali andavano di pari passo con violenze contro la popolazione slava e portarono all’identificazione dell’Italiano con il fascista oppressore.
ORA E SEMPRE RESISTENZA!