13 luglio 1920: l’incendio del Narodni Dom e le persecuzioni nazionaliste fasciste contro gli sloveni
Il preludio della guerra di sterminio razzista contro le cosidette “razze inferiori”, tra cui, secondo i nazifascisti, figuravano anche gli slavi
Il Narodni Dom (Casa Nazionale) di Trieste è un grande edificio, centro della cultura slovena: tra l’agosto 1904 e il luglio 1920 ha ospitato circa 600 spettacoli teatrali, 134 tra concerti, operette e altri eventi musicali, 95 manifestazioni politiche, 84 conferenze, 69 celebrazioni e commemorazioni varie.Il Narodni Dom spitava: un teatro con oltre 400 posti a sedere e parzialmente coperto da un lucernario apribile, una palestra, una sala di lettura, la scuola di musica, due ristoranti, un caffè, una birreria, una banca, una tipografia (con la redazione del giornale “Edinost”), un albergo tra i più moderni d’Europa (l’Hotel Balkan) con 62 stanze tra cui ben 30 dotate di bagno privato, diversi studi professionali e 16 appartamenti privati.
Nel Narodni Dom risiedevano numerose organizzazioni e associazioni: la Società di mutuo soccorso con i suoi due ambulatori, il Club alpino sloveno (Slovensko planinsko društvo), la Società politica Edinost, l’orchestra del Centro musicale sloveno (Glasbena matica), la Società filodrammatica (precorritrice dello Slovensko stalno gledališče -Teatro Stabile Sloveno), la Società ginnica Sokol.
Le persone frequentavano il Narodni Dom per andare in banca o dall’avvocato, per bere un caffè e fare due chiacchiere, ma soprattutto per partecipare ai numerosi avvenimenti mondani e alle diverse attività sociali che offriva la variegata vita pulsante sempre attiva del grande centro della cultura slovena.
Il 13 luglio 1920 la storia e la vita del Narodni Dom vengono interrotte da un incendio doloso: Dopo un comizio in piazza Unità d’Italia, estremisti fascisti e nazionalisti attaccano una ventina di attività gestite da slavi (caffè, negozi, banche e ditte), il consolato jugoslavo e, soprattutto, il Narodni Dom dandolo alle fiamme.
L’incendio, domato solamente il giorno successivo, riduce in cenere gli ambienti modernamente arredati, i libri, gli strumenti musicali, gli archivi, e con essi gran parte del patrimonio culturale degli sloveni di Trieste.
Il rogo del Narodni Som non è il solo atto di intolleranza fascista antislava: già prima del 13 luglio si verificarono i primi segnali che condurranno a 25 anni di crescente oppressione e persecuzione razzista contro gli sloveni da parte degli nazionalisti italiani e soprattutto dei fascisti. Il Regno d’Italia e soprattutto il regime fascista priveranno gli sloveni del diritto all’uso della lingua madre e, con la chiusura delle scuole, i confinamenti e le deportazioni, metteranno a rischio la sopravvivenza stessa della comunità slovena a Trieste.
A partire dalla fine della Prima Guerra Mondiale fino al 1943, nei territori annessi e in tutta la Jugoslavia occupata, l’esercito italiano e le milizie fasciste compirono violenti massacri, attuando una vera e propria bonifica etnica delle popolazioni jugoslave, distruggendo interi villaggi e sterminando la popolazione civile, dando luogo a innumerevoli stragi, oggi dimenticate e sepolte sotto l’oscuro e pericoloso manto auto-assolutorio degli “italiani brava gente”.
Con il Trattato di Rapallo del 1920, circa 500.000 sloveni e croati entrarono a far parte del Regno d’Italia e divennero “italiani”, ma già il 13 luglio 1920 gli squadristi italiani incendiarono il Narodni Dom, la casa del popolo sloveno quale simbolo della cultura e della comunità slovena.
La politica di distruzione dell’identità slovena e croata è stata praticata dallo Stato italiano (prima liberale e poi fascista) negli anni ’20 e ’30 mediante l’italianizzazione forzata dei cognomi (circa 500.000), dei nomi personali e dei toponimi, il divieto di parlare sloveno e croato, la chiusura di tutti i giornali (31), la soppressione dei circoli culturali, dei soggetti di rappresentanza politica e sociale, delle scuole (circa 400 con 840 classi e 52.000 studenti), l’espropriazione dei beni e delle terre consegnate agli italiani che, sullo stesso modello coloniale applicato in Africa, sostituivano la popolazione slovena e croata che era fuggita all’estero tra le due guerre mondiali (un esodo dimenticato di oltre 100.000 persone).
Inoltre, la repressione del Tribunale Speciale contro ogni tentativo di ribellione fu particolarmente violenta contro la comunità slovena e croata: 131 processi su 978 riguardavano sloveni e croati, 544 imputati su 5.600 erano sloveni e croati, 33 condanne a morte su 42 erano state emanate contro sloveni e croati.
Il 6 aprile 1941 l’Italia aggredisce militarmente la Jugoslavia con centinaia di migliaia di soldati e truppe d’invasione senza alcuna dichiarazione di guerra. Tra il 1941 e il 1943 i fascisti italiani si distinsero per la crudeltà di stampo terroristico e razzista antijugoslavo, soprattutto verso la popolazione civile: incendi, torture, impiccagioni, stragi e massacri, deportazioni, fucilazioni, stupri, oltre 350.000 morti.
La circolare 3C del generale Mario Roatta (1° marzo 1942) fissava le regole con le quali le autorità militari italiane dovevano condurre l’occupazione in Jugoslavia, del tutto simili alle direttive naziste applicate all’Italia occupata: uccidere i Partigiani presi prigionieri sul campo, incendiare le loro case, individuare in ogni paese ostaggi da fucilare per rappresaglia in caso di attacchi partigiani, svuotare i villaggi della popolazione deportando nei campi di concentramento tutti gli abitanti di quelle zone che sostenevano la Resistenza antifascista.
Furono decine i campi di concentramento fascisti in Italia e Jugoslavia, nei quali furono deportate oltre 100.00 persone tra partigiani e civili jugoslavi, inclusi molti bambini: i più famosi Kampor sull’isola di Rab, Gonars, Visco, Chiesanuova, Cairo Montenotte, Renicci di Anghiari, Colfiorito, Monigo di Treviso, Fraschette di Alatri, Fossalon di Grado, nei quali perirono migliaia di persone tra fucilazioni, violenze, fame e malattie.
Dall’autunno 1943, il territorio corrispondente alle allora province di Udine, Gorizia, Fiume, Pola e Lubiana era stato definito OZAK (Operations Zone Adriatisches Kustenland) cioè Zona di Operazione Litorale Adriatico, e posto sotto diretta amministrazione nazista: i militari e le forze dell’ordine italiane furono quindi impiegate, su ordine tedesco, in azioni antipartigiane, rastrellamenti, torture, deportazioni e massacri di civili e partigiani su tutto il territorio del Litorale Adriatico.
Tra il 1943 e il 1945 ben 53 convogli di deportati politici su 80 (cioè due su tre) e diretti ai campi di sterminio nazisti di Dachau, Mauthausen e Buchenwald, partirono proprio da Trieste, Pola e Monfalcone per un totale di oltre 10.000 deportati: l’antifascismo e la Resistenza si erano sviluppate molto nel fertile suolo delle rivendicazioni nazionali delle comunità slovena e croata proprio perché intendevano riconquistare le libertà perdute e quindi porre fine alla violenta oppressione razzista italiana che il regime fascista faceva coincidere con lo Stato italiano.
Anche per questo, la componente slovena aveva aderito in massa e supportato in ogni modo la Resistenza antifascista e partigiana, innestando la lotta di Liberazione dal nazifascismo sul il sentimento di liberazione nazionale.
Fonti:
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