Oggi ricordiamo il comandante partigiano Omar al-Mukhtar, guida della resistenza libica contro l’invasione fascista italiana
OMAR AL-MUKHTAR, IL LEONE DEL DESERTO
di Angelo Del Boca
Quando Omar al Mukhtar assume nel 1923, per delega di Mohamed Idris, capo della Senussia, la guida della resistenza anti-italiana in Cirenaica, ha già 63 anni e alle spalle una intera esistenza spesa ad insegnare il Corano nella moschea di Zawihat al Gsur, un villaggio agricolo tra Barce e Maraua.
Il generale Graziani, che finirà per batterlo, ricorrendo ad ogni mezzo, così lo descrive: «Di statura media, piuttosto tarchiato, con capelli, barba e baffi bianchi, Omar al Mukhtar era dotato di intelligenza pronta e vivace; era colto in materia religiosa, palesava carattere energico ed irruente, disinteressato ed intransigente; infine, era rimasto molto religioso e povero, sebbene fosse stato uno dei personaggi più rilevanti della Senussia».
Per essere stato delineato dall’avversario che lo porterà al patibolo, il ritratto è sorprendentemente fedele e positivo, concorda con il ritratto che altri hanno tracciato di lui. Ma c’è una dote di Omar che Graziani sottace ed è il suo genio militare, che forse eguaglia o supera quello del guerrigliero somalo Mohammed ben Abdalla Hassan, più noto come il Mad Mullah.
Omar al Mukhtar, infatti, non è soltanto uno splendido esempio di fede religiosa, di vita semplice ed integerrima. È anche il costruttore di quella perfetta organizzazione politico-militare che gli italiani riusciranno a frantumare soltanto alla fine di un decennio di lotte e utilizzando mezzi assolutamente straordinari.
Con appena 2-3 mila uomini, ma in certi periodi anche soltanto con mille, Omar riesce a tener testa a 20 mila uomini, dotati dei mezzi più moderni ed efficienti, riforniti con larghezza e protetti dall’aviazione. Quasi sempre all’offensiva – lo testimoniano i 53 combattimenti e i 210 scontri che si succedono nel decennio – Omar colpisce, poi si ritira e svanisce nel nulla, creando nell’avversario, che ricerca invano una battaglia risolutiva, rabbia e un senso di frustrazione.
Nella conduzione della spietata guerra per bande, Omar è favorito dalla natura impervia dei territori in cui opera e dal sostegno incondizionato delle popolazioni del Gebel Akhdar che lo riforniscono di uomini, armi, cibo e denaro. Si aggiunga che ad Omar giungono regolarmente e in abbondanza aiuti di ogni genere dal vicino e compiacente Egitto, dove hanno trovato rifugio e protezione l’emiro Mohamed Idris ed altri capi della resistenza all’Italia.
Quando, all’inizio del 1930, il regime fascista affida al generale Graziani, che già ha sottomesso la Tripolitania e il Fezzan, il compito di liquidare la resistenza in Cirenaica, il generale sa perfettamente che non riuscirà a sconfiggere Omar al Mukhtar adottando soltanto gli strumenti militari reperibili in colonia. Per vincere Omar è necessario fargli il vuoto intorno, prosciugare le sue casse, tagliare le sue linee di rifornimento con l’Egitto. D’intesa con il governatore generale della Libia, maresciallo Badoglio, e con il ministro delle colonie, Emilio De Bono, il generale Graziani organizza una serie di operazioni tese al soffocamento della ribellione.
Con la chiusura delle 49 zavie della confraternita religiosa senussita e la confisca dei suoi ingenti beni (centinaia di case e 70 mila ettari della miglior terra), Graziani toglie a Omar uno dei sostegni economici più rilevanti. Con la mossa successiva, quella di trasferire parte delle popolazioni del Gebel Akhdar verso la costa, Graziani confida di poter bloccare il continuo reclutamento di guerriglieri. Presto si accorge che quest’ultima operazione non fornisce i risultati sperati. Allora ricorre ad un estremo rimedio: quello di trasferire l’intera popolazione delle regioni montane e della Marmarica lontano dalla zona delle operazioni, per togliere alla ribellione ogni residuo sostegno.
Il trasferimento, che si compie con indicibili sofferenze fra il luglio e il dicembre del 1930, riguarda oltre 100 mila libici, che vengono confinati in tredici campi di concentramento nel sud bengasino e nella Sirtica, regioni notoriamente fra le meno ospitali, dove i reclusi saranno falcidiati dal tifo petecchiale, dalla dissenteria bacillare, dalla fame e dalla quotidiana razione di botte. A guerra finita, su 100 mila confinati, 40 mila non torneranno più alle loro case.
I conti con la storia
Per tagliare infine i rifornimenti dall’Egitto, Graziani fa costruire una barriera di filo spinato, larga alcuni metri e lunga 270 chilometri, dal porto di Bardia all’oasi di Giarabub. Nell’estate del 1931, mentre viene sigillata ermeticamente la frontiera con l’Egitto, Graziani è ormai convinto che Omar finirà per cadere nella trappola. E in effetti il capo della guerriglia si trova a mal partito. Gli sono rimasti soltanto 700 uomini, poche munizioni e pochissimi viveri.
Con i suoi audaci cavalieri riesce a mettere a segno ancora qualche colpo, ma l’11 settembre, avvistato dall’aviazione, viene circondato da forze soverchianti nella piana di Got-Illfù. Omar cerca ancora di portare in salvo il suo squadrone ordinandone il frazionamento. E infatti gran parte dei suoi uomini si salva. Ma lui viene colpito da una fucilata al braccio e subito gli uccidono il cavallo.
Per Omar al Mukhtar è finita. Tradotto a Bengasi con il cacciatorpediniere “Orsini”, il 15 settembre lo processano nel salone del Palazzo Littorio. Il processo è soltanto una tragica farsa destinata a rendere legale un assassinio. Mussolini ha già deciso per la pena capitale. Alla lettura della sentenza, che lo condanna all’impiccagione, Omar al Mukhtar non si scompone, dice: «Da Dio siamo venuti e a Dio dobbiamo tornare». L’indomani, carico di catene, il settantenne Omar sale sul patibolo.
Raggiunta l’indipendenza nel 1951, la Libia di re Idris e poi quella di Muammar al Gheddafi riconoscono il ruolo di primissimo piano di Omar e gli dedicano vie e piazze, monumenti e un mausoleo a Bengasi. Nel 1979 il presidente Gheddafi stanzia 50 miliardi per realizzare, con la regia di Moustapha Akkad, un film sulle imprese di Omar, che si intitola Il Leone del deserto. Interpretato da Anthony Quinn, che si cala nel personaggio con estrema bravura, il lungometraggio a colori viene proiettato nel 1982 in tutto il mondo. Salvo che in Italia, dove ancora oggi non è entrato nella normale distribuzione, perch‚ «lesivo dell’onore dell’esercito italiano».
Il lungo e incredibile ostracismo contro il film di Akkad si inserisce in una più vasta e subdola campagna di mistificazione e di disinformazione, che tende a conservare della nostra recente storia coloniale una visione romantica, mitica, radiosa. Cioè assolutamente falsa.
L’esecuzione
Sono le 9 del mattino del 16 settembre 1931. Intorno alla forca eretta nel piazzale del campo di concentramento di Soluch, in Cirenaica, sono assiepati oltre 20 mila libici, fatti affluire da Bengasi, da Benina e dai lager della Sirtica. Sono qui per imparare che la giustizia fascista è severa, spietata, inesorabile. Sono qui per assistere all’impiccagione di Omar al Mukhtar, un capo leggendario che, per dieci anni, ha dato del filo da torcere agli eserciti di quattro governatori italiani.
Quando il vecchio Omar, avvolto in un baracano bianco, viene fatto salire sul patibolo, il silenzio nel campo si fa totale. Ostacolato dalle catene e tormentato dalla ferita al braccio ricevuta nell’ultimo combattimento, il vicario della Senussia muove a stento i passi, tanto che debbono aiutarlo a salire i gradini del palco. Mentre gli sistemano il cappio intorno al collo, guarda per l’ultima volta la folla silenziosa, che trattiene a fatica il dolore e la rabbia. Poi, con un calcio allo sgabello, gli spezzano il collo.
Con Omar al Mukhtar finisce anche la ribellione libica, cominciata vent’anni prima. Ma non finisce la leggenda di Omar, che anzi cresce con gli anni, sino a diventare un insostituibile punto di riferimento per chi aspira all’indipendenza della Libia.
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