Testimonianza di Gino Mansani
sopravvissuto alla strage di Grugliasco del 29-30 Aprile 1945
Premetto che questa mia relazione vuole essere un resoconto obiettivo e fedele del tragico episodio avvenuto fra il 29 e il 30 aprile 1945 alla “Casa del Popolo” di Grugliasco.
Ritengo in tutta coscienza per il ricordo vivo, profondamente impresso nella mente, nel cuore e nella carne, di quella notte di terrore, di poter assolvere a questo compito.
Ed è mio desiderio siano portate a conoscenza della cittadinanza le sofferenze subite dai miei compagni prima del sacrificio supremo.
La sera del 29 aprile, dopo aver partecipato alle manifestazioni di giubilo per l’avvenuta liberazione di Grugliasco, mi trovavo assieme ai compagni Volontari della Libertà: Tiziano Lanza, Pasquale De Santis e Giovanni Facchin alla Casa del Popolo per il servizio di organizzazione e di vigilanza delle staffette dislocate ai vari posti di blocco. Verso le ore 22 si presentava il sacerdote Don Mario Caustico, Cappellano della 46° Divisione Garibaldi, che aveva potuto precedere, seppure di poco, la colonna motorizzata tedesca avanzante su Grugliasco. Il sacerdote inviato dal Comando dell’Aeronautica d’Italia quale parlamentare incontro alla colonna, era stato trattenuto come ostaggio ed era riuscito non so con quale stratagemma ad eludere la vigilanza. Avvertiva quindi noi dello stato d’animo della soldataglia che si portava sul paese, della loro rabbia a stento contenuta, della sete di vendetta che li animava e della possibilità dell’esplodere di tali sentimenti sulla popolazione. Era quindi necessario abbandonare l’edificio, non dare esca alle belve naziste e così dopo breve discussione veniva deciso.
Eravamo ormai presso la porta, quando i primi mezzi entravano nella piazza. Non potevamo più uscire, non rimaneva che sprangare la porta e far credere che l’edificio fosse disabitato. E così venne fatto. Le luci venivano spente e ci raccogliemmo in silenzio al buio.
Il trascorrere delle ore sembrava darci ragione: eravamo riusciti nell’inganno? Verso l’una le nostre illusioni dovevano cadere, il vociare dei tedeschi avvinazzati si approssimava e i primi colpi non tardavano ad abbattersi sulla porta: da parte nostra silenzio, con la testa appoggiata sul tavolo fingevamo di dormire. La porta cadeva ed i tedeschi diffidenti si presentarono con le armi puntate alla luce di lampade tascabili. Scattarono gli interruttori della luce elettrica ed il loro furore esplose in tutta la sua violenza; il calcio dei mitra e dei moschetti si abbatteva come gragnola sulle nostre teste.
Qualcuno rimaneva a terra privo di sensi, qualche altro aveva il volto bagnato di sangue. Ma la loro ferocia non era ancora soddisfatta. Dovevano escogitare qualche cosa di più raffinato, di più divertente.
E prendevano il giovane De Santis: con la testa gli facevano infrangere i vetri dei quadri appesi ai muri fino a farlo svenire; ci ponevano in fila col dorso come si usa nel gioco della “cavallina” e anziché scavalcarci, piombavano sul collo con tutto il peso del corpo sino a farci scricchiolare le ossa. Dal piano terreno, a più riprese, ci facevano correre su per la scaletta che portava al piano superiore e a una svolta facevano cadere all’improvviso il calcio del fucile sulla testa. E fra un giuoco e l’altro, ceffoni che ci facevano barcollare, calci al basso ventre da farci contorcere dal dolore, tirate d’orecchie fino a farle sanguinare, e tutto fra un vociare assordante e sghignazzante di scherno. Ogni tanto qualcuno di noi si accasciava privo di sensi e quando si riprendeva, le percosse e le sevizie lo abbattevano di nuovo.
Un episodio soprattutto voglio ancora ricordare, che a mio avviso pone in vivida luce la nobile figura di Don Caustico quale sacerdote e quale combattente. Scovata una bandiera rossa i tedeschi la lanciavano con scherno e disprezzo sul volto del sacerdote e questi, con aria di sfida, la raccoglieva e se la poneva su una spalla. Il gesto rendeva furibonde quelle belve che più volte lo colpivano a ceffoni e pugni sino a farlo barcollare e fargli cadere la bandiera, ma ogni volta che il vessillo cadeva, egli impassibile lo raccoglieva e se lo rimetteva sulla spalla. Certamente quella bandiera in quel momento, rappresentava per l’eroico Cappellano, un simbolo, era il vessillo dei suoi garibaldini, di quei ragazzi che vedeva soffrire e che sapeva votati alla morte.
Verso le ore 4,30 venimmo portati fuori sulla piazza ove ci attendevano legati, con le braccia alzate, numerosi compagni di sventura e con loro restammo fino alle ore 7,30. Il supplizio di quelle ore, con i polsi legati, doloranti, stretti nelle corde e nelle cinghie, le braccia sopra la testa che più non si reggevano, con i pantaloni sbottonati e cadenti e le percosse che continuavano, sono cose che non si possono dimenticare.
Mentre eravamo allineati sulla piazza, Tiziano Lanza veniva prelevato e portato per il paese perché rivelasse i nascondigli dei partigiani. Ritornava in condizioni pietose, affranto, sfigurato: non essendo riusciti nel loro intento i tedeschi avevano di nuovo infierito su di lui.
Sempre sulla piazza ci portavano dinanzi il Segretario Comunale Francesco Vaglienti perché procedesse al nostro riconoscimento. Alla sua dichiarazione di non conoscere nessuno, veniva allontanato con dispetto e ciò doveva poi costargli la vita. Alle 7,30 tutti venimmo portati e stipati nella saletta a piano terreno della Casa del Popolo. Don Caustico che conosceva la lingua tedesca aveva capito come ormai fossimo condannati a morte.
Io, lo stesso Don Caustico e qualche altro intanto, ci eravamo slegati e pensavamo di sopraffare le sentinelle alla porta e tentare una fuga disperata. Ma in una delle loro continue ispezioni i tedeschi se ne accorsero e non sto più a dire le violenze che dovemmo di nuovo subire.
Alle 10.30 venimmo divisi in tre gruppi, quello ove mi trovavo veniva avviato verso la località San Giacomo. Appena giunti nei pressi di un campo di segala sentivo bestemmiare degli ordini in tedesco, vedevo Don Caustico alzare un braccio nel gesto della benedizione e nello stesso tempo si abbatteva su di lui una prima scarica. Sentivo ancora il crepitare dei mitra e dei moschetti e mi buttavo a terra – ero ferito non gravemente – non mi rimaneva che fare il morto.
Dopo una pausa, il susseguirsi dei colpi di grazia.
E giungeva a mia volta. Udivo distintamente caricare l’arma, una detonazione lacerante, un urto sotto la spalla e la bocca si riempiva di un liquido caldo, salato: sangue. Qualche altro colpo vicino a me, poi silenzio.
Alzavo la testa, nessuno. Mi mettevo seduto e mi slegavo; vicino a me era Tiziano Lanza, ancora vivo, tentavo di sollevarlo ma mi imponeva di lasciarlo e di salvarmi. Strisciando carponi passavo vicino a ogni compagno e ne slegavo qualcuno che spariva tra la segala. Giungevo anche a Don Caustico, vivo ma agonizzante, con uno squarcio spaventoso alla gola. Aveva ancora la forza di dirmi: “Salvati, per me è finita, va e Dio sia con te”. Continuavo a strisciare fra la segala dirigendomi verso le case vicine. Nei pressi di una casetta scorgevo seminascosta una coraggiosa ragazza, Orsolina Foriero; con dei segni riuscivo a farmi notare, la vedevo scavalcare un muretto e dalla casa attigua farmi segno di attraversare la strada con prudenza perché all’estremità vi erano delle sentinelle. Strisciando carponi, ormai esausto, venivo raccolto sulla porta dalla ragazza e dalla sig.ra Manferdini Maria.
Al oro coraggio devo la mia vita. Esse mi fecero le prime medicazioni e solo più tardi alcuni compagni coraggiosi mi caricavano su un autocarro e mi portavano all’Ospedale di Rivoli da dove ne uscivo dopo due mesi.
La fortuna ha voluto che io sia sopravvissuto all’immane tragedia, ha voluto conservarmi alla mia donna e alla mia bambina ma 66 compagni sono caduti, numerose mamme e spose piangono ancora.
Grugliasco ha dato un contributo di sangue generoso alla lotta per la libertà: le sia data alfine la giusta ricompensa.
F.to: Mansani Gino
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